Prison break


Flashback. Nel lontano 2009 mi trovavo per la prima volta in Egitto per lavoro. Per la precisione a Damanhur, una cittadina nel delta del Nilo di cui penso di aver già parlato, in cui mi fermai per quasi un anno. Fuori dal lavoro mi ritrovavo nella stanza di un albergo fatiscente con una linea internet scadente e una tv che trasmetteva giusto un paio di canali italiani. Per evitare di dover passare tutto il tempo a parlare di lavoro con i colleghi mi ero comprato un lettore DVD e alla sera mi guardavo qualche puntata di una delle serie di cui, da ogni rientro in Italia, mi portavo dietro i cofanetti con le stagioni complete. Erano gli anni in cui i Serial TV iniziavano a diventare il modo più interessante con cui raccontare storie. In quella stanzetta mi guardai cose incredibili come "I Soprano", "Six feet under", le prime stazioni di "24" e cose meno belle come "Nikita".

E "Prison break". O almeno ci provai.

Faceva parte di quel ristretto gruppo di titoli che andavano visti assolutamente. L'incipit era incredibile. Un ingegnere brillante mette a punto un piano geniale per far evadere di prigione il fratello ingiustamente accusato e se lo tatua su tutto il corpo in modo da poterlo seguire passo passo dopo essersi fatto arrestare. Personaggi estremi, dialoghi taglienti e sequenze mozzafiato e la curiosità di capire come ogni imprevisto verrà superato grazie alle informazioni nascoste sulla pelle del nostro protagonista. Con la seconda stagione la serie si trasforma e diventa il racconto di una fuga a perdifiato intrecciata con una caccia al tesoro. Nuovi personaggi entrano in gioco altri ne escono nella consapevolezza che chiunque potrebbe morire da un momento all'altro. 

Fui però costretto a interrompere la visione perché banalmente uno dei CD non funzionava e col tempo me ne dimenticai. Fino a pochi giorni fa quando la ritrovai per intera su Amazon.
Completata la visione della seconda stagione mi accorgo che già si vede qualche cedimento nella trama, ma la conclusione sembra plausibile. Fino al colpo di scena che invece che chiudere prova a rilanciare per ulteriori sviluppi.

La terza stagione è quasi una parodia della prima. Si prova a replica quello che aveva funzionato all'inizio, ma qualcosa non funziona. Il ritmo è diverso, i dialoghi non all'altezza e ci si accorge che molte delle trovate non stanno in piedi. La quarta sembra quasi una soap opera sudamericana. Un susseguirsi di colpi di scena sempre meno credibili, alleanze che si formano e si disfano tra secondi e tripli giochi con personaggi che perdono la loro caratterizzazione per diventare l'ombra di se stessi. Si salva però in fase di recupero con un finale azzeccato che da una dignità al tutto e sembra mettere il punto a tutta la saga.

Sembra. Perché dopo anni di silenzio viene riaperto tutto con una quinta stagione che prova a rilanciare e a proporre degli schemi che potrebbero essere applicati per molte stagioni. Mi sono chiesto perché di questo accanimento e una delle risposte che mi sono dato è che qualcuno abbia avuto l'idea di proporre su piccolo schermo la formula che ha funzionato per "Fast and furious" al cinema. Dopotutto la fisicità dei due protagonisti richiama molto quella di Toretto e O'Connor così come è sovrapponibile il concetto della famiglia allargata basata non tanto dal legame di sangue ma dall'affinità spirituale e dalle esperienze di vita.

Flashforward. Nel frattempo i due attori che impersonano i fratelli protagonisti della serie sono apparsi di nuovo assieme come cattivi di una serie TV per adolescenti di super eroi. E di nuovo come fratelli.


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